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Maurizio racconta: “Quel piccolo borgo di Gavarno Vescovado”

Maurizio, uno dei nostri Custodis, ci racconta la sua Scanzorosciate.

QUEL PICCOLO BORGO DI GAVARNO VESCOVADO

Era il 1992.

Venivo da un periodo un po’ tribolato della mia vita; dovevo ricominciare, aprire un capitolo nuovo, abitazione compresa.

Un caro amico con trascorsi in questa zona mi disse: “Ci sono delle opportunità a Gavarno Vescovado, te lo consiglio, pensaci”.

Non era per me un posto del tutto nuovo. Qualche anno addietro ci andavo per partecipare al torneo di Tennis provinciale per tennisti dilettanti sfigatelli come me, organizzato dallo Sporting Gavarno.

Non è che mi piacesse molto quel centro sportivo, ma quanto bella era la natura intorno! Che fascino quel borgo semi-abbandonato con quel gioiellino di chiesina! Ricordo che mi fermavo a mangiare alla trattoria di fianco al Castello, dal “Nando” mi pare si chiamasse.

“Ma sì, perché no. Proviamoci!” mi dissi, anche se avrò qualche disagio in più col lavoro, anche se così diverso dai contesti che mi avevano accompagnato per 40 anni.

Una volta trasferito, i primi timidi e prudenti approcci, da buon bergamasco. Con l’ ambiente intorno amore a prima vista. Come si possono non apprezzare queste colline, la natura, le altre frazioni? Arriverò pian piano a partecipare a tante attività che animano questo comune, tra cui la biblioteca e l’università degli adulti, e mi renderò man mano sempre più conto dell’ efficienza dei servizi comunali.

Con le persone un approccio più lento. La maggior parte venivano da fuori come me, quindi riservati. Con gli abitanti tradizionali del luogo, ormai pochi, contatti più complicati.

Il mio caro amico fotografo Modonesi mi aveva regalato un libro, che conservo gelosamente, con un servizio fotografico realizzato nel 1964 al Castello di Gavarno, dove ancora viveva una comunità contadina di 4/5 famiglie.

Ero incuriosito, volevo sapere. Si rompe il ghiaccio, le prime testimonianze, i primi racconti: spesso di dura vita di lavoro e di magre soddisfazioni, famiglie toccate dall’emigrazione, per qualcuna addirittura in Australia!

Il riservato Zaverio, ora purtroppo scomparso, dopo un lavoretto di manutenzione in casa mia si sbottona un poco e mi racconta, tra le altre cose, la sua prima spaesata discesa verso la città per andare a lavorare, ormai sedicenne, alla Fulget vicino al Serio.

Gli mostro le foto del libro: riconosce tutte le persone raffigurate, prete compreso.

I nove caduti che compaiono sul piccolo monumento ai combattenti delle due guerre che sta di fronte a casa, a fianco della chiesa: Algeri, Brignoli, Madaschi, Pezzotta, Foresti sono gli stessi che compaiono più di frequente sulle lapidi del piccolo camposanto 300 metri sotto.

Sono la carta d’identità di una piccola comunità laboriosa, schietta, solidale.

Ora molto è cambiato: c’è una dimensione nuova, più agiata, più moderna, ma resta comunque il fascino di un ambiente che amo. È come l’amore per una donna: dopo le prime passioni ed entusiasmi, diviene poi amore sereno, un affetto pacato, sincero.

Mi piace guardare da casa laggiù la pianura d’inverno immersa nella nebbia, gli Appennini lontano nelle giornate serene e terse; mi piace udire le campane vicine che battono le ore, il vocio d’ estate dei bambini che giocano nel piccolo oratorio e rompono una quiete quasi eccessiva, il ciacolare delle poche donnette davanti alla chiesa dopo la funzione del mattino.

Mi piace cercare con gli occhi da lontano tracce di casa mia quando torno da un viaggetto oppure sporgermi dai bastioni di Città Alta per riuscire a vedere da lontano la sagoma della chiesa della Tribulina.

Mi piace che i vecchi amici cittadini mi chiedano almeno una volta l’anno di fare una passeggiata dalle “mie parti”, come dicono loro e finire poi con un bel pranzetto in qualche agriturismo.

Mi piace andare al bar della Tribulina a vedere l’Atalanta e tifare assieme a qualche pensionatello come me davanti a un bianchino o una birretta e poi fare due chiacchiere, farmi raccontare di come era e del divenire.

Mi piace provare un piacere intenso quando leggo gli occhi e le espressioni delle persone di fuori che accompagno un paio di volte l’anno nelle passeggiate attraverso i vigneti e le stradine delle nostre colline, presso le aziende oleo-vinicole che li accolgono con gentilezza e professionalità; colgo una sottile invidia nei miei confronti: tradotto “Beato lui che vive qui!”.

Mi piace molto altro; già, ora mi sento Scanzorosciatese a tutti gli effetti e sono fiero di esserlo!

Ogni tanto mi dico: “ Mauri, che cu..o hai avuto nel ’92!!”